“C’è poco da esultare: Riina è morto, ma la mafia è ancora attiva, e adesso ci sarà da tremare perché le cosche cercheranno di impadronirsi del posto vacante. E quasi sempre in questi casi si sfocia nella guerra di mafia”. E’ chiara l’analisi della morte di Totò Riina che fa Francesco Agosti, responsabile del Movimento Agende Rosse di Guidonia intitolato al giudice Rosario Livatino. Agosti da tempo studia, per lavoro e per professione, ma non solo, il fenomeno mafioso. Con lui abbiamo tentato di comprendere i significati evidenti e nascosti della morte del Capo dei Capi, simbolo e mente delle stragi del 92-93 ma soprattutto della Trattativa Stato-Mafia.
Riina è morto, senza mai pentirsi e portandosi via segreti inconfessabili. Cosa rappresenta la sua morte per il nostro Paese?
Con la morte del boss di Cosa Nostra se ne è andata una parte di storia terribile dell’Italia. Una parte terribile, feroce e sanguinaria, che certamente sarebbe stato meglio non fosse mai esistita e vissuta, all’interno della quale è stato raggiunto il più alto grado del Male ma anche il massimo grado del Bene, e ovviamente mi riferisco a tutti quelli che sono caduti per combatterlo, il Male rappresentato da Riina. Per l’Italia la morte del boss rappresenta in qualche maniera una liberazione, per il suo ancora troppo grande peso criminale che aveva e che rappresentava, anche se il suo debito con lo Stato no sarà percepito mai come completamente pagato, né ora con la morte e neanche tra anni. Troppo gravi i crimini commessi.
Tu studi da anni il tema della mafia nelle sue varie e terribili sfaccettature. Cosa hai provato alla notizia della morte di Riina?
Ci pensavo da anni a quello che avrei provato quando né Provenzano né Riina sarebbero stati in vita. Pensavo a rabbia, a un senso di liberazione e giustizia per le vittime. E invece non ho provato assolutamente niente, indifferenza totale: credo che non meriti attenzione, anche per non dare risalto ai suoi crimini in vita. Sono certo che su Riina ricadrà quella che i Romani chiamavano damnatio memoriae: sarà sempre l’esempio del cattivo per eccellenza. E così sarà nei secoli dei secoli.
Riina non si è mai pentito, non ha mai parlato dei suoi rapporti al di fuori del contesto mafioso. Cosa si è portato via con la morte?
La morte di Riina rappresenta una perdita per lo Stato. Quanti segreti si è portato nella tomba? Di quanti “indicibili accordi” è stato autore e protagonista? Pensiamo a che enorme, inimmaginabile passo avanti nella lotta alla mafia avrebbe potuto fare la Giustizia se Riina avesse detto la metà delle cose che sapeva.
Possiamo definirla una occasione mancata?
Seguendo l’ottica di cui abbiamo parlato assolutamente sì. Certamente tanti a Roma e Palermo staranno festeggiando, non perché un terribile sanguinario è morto, ma perché se ne è andato colui che avrebbe potuto esercitare su di loro un ricatto, grazie agli accordi stretti in passato, alcuni dei quali molto probabilmente sono ancora in vigore: ne è un esempio il processo per la Trattativa Stato – Mafia.
A livello di insegnamento invece cosa rappresenta?
La vita e la fine di Riina sarà sicuramente un esempio quando si spiegherà alle giovani generazioni che una vita criminale non porta a nessun vantaggio, anzi, terminerà nel peggiore dei modi, in carcere e lontano dai propri cari. Il tutto a differenza di vite come quelle di Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Boris Giuliano, Pio La Torre e via discorrendo: loro saranno per sempre ricordati con tutti gli onori possibili e posti nell’Olimpo degli Eroi del nostro Paese. Lo diceva perfettamente Leonardo da Vinci: “Sì come una giornata ben spesa dà lieto dormire, così una vita ben spesa dà lieto morire”.
Parliamo invece dell’accoglienza che la notizia della morte ha avuto nell’opinione pubblica…
Una premessa è d’obbligo. Ognuno agisce come meglio crede. Io non brindo, non ho brindato quando è morto Provenzano e non ho brindato a quella di Riina. E ti spiego il perché: sembra che quando venne ucciso Pio La Torre, Riina ed altri festeggiarono e brindarono al ritorno del commando che aveva appena ammazzato il parlamentare. E ancora, ed è fatto noto, il giorno successivo alla strage di Capaci i sacchi di rifiuti dell’Ucciardone erano usciti dal carcere più pesanti rispetto al normale: si scoprì che erano pieni di bottiglie di champagne, utilizzate per brindare alla morte di Falcone.
Dunque brindare vuol dire essere come loro?
Ne sono fermamente convinto: noi non siamo come loro. Loro festeggiano per la morte di qualcun altro, noi no. Io non sono come quei mafiosi.
Come si è comportato lo Stato in questa circostanza?
Lo Stato ha dimostrato stavolta la sua forza. Ha tenuto Riina in carcere fino alla fine dei suoi giorni, giustamente perché fino alle operazioni chirurgiche subite il boss era ancora in grado di influenzare l’esterno: basti pensare che Provenzano già prima di morire era ridotto a una larva, e io stesso criticai la decisione di tenere in carcere l’uomo in quel caso. Dall’altra parte lo Stato ha garantito a Riina i diritti fondamentali per tutti i detenuti, quello alle cure o anche la possibilità per i parenti di dargli l’ultimo saluto. Una prova di fermezza e una conferma: noi, lo Stato, non siamo come loro. Ed è fondamentale ricordarlo.
Come prevedibile la morte di Riina ha avuto grande eco sui social. Al netto delle conseguenze “pratiche” che hai raccontato circa il posto vacante lasciato dal boss, di cosa dovremmo preoccuparci?
Sul profilo Facebook della figlia di Riina è pieno di gente che ha scritto post di condoglianze, dicendo quanto Totò sia stato bravo in vita, e quanto persone come lui non ce ne siano più. Pensieri simili a quelli che incredibilmente ho letto sui social in questi giorni. Ecco, questa è una vergogna, e di questo dovremmo preoccuparci seriamente.
La migliore risposta sta tutta nella foto che abbiamo scelto a corredo dell’intervista. Raccontare le storie di chi ha combattuto la mafia è ancora, e sarà sempre, il modo migliore per ricordare un punto, forse il più importante. Per non girare più la testa dall’altra parte. “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo”. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti da eroi, ma non volevano essere considerati tali. Erano uomini che facevano il loro lavoro. E lo facevano molto bene. Per questo ce li hanno portati via. Ma le idee restano. E su quelle cammina oggi la quotidiana lotta alla mafia di tante persone, di tanti magistrati, di tanti giornalisti – ancora minacce per Paolo Borrometi, la notizia è di ieri – di tanti rappresentanti delle forze dell’ordine e di tanti cittadini che la testa dall’altra parte non intendono girarla. Non più.
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