Guidonia / Le voci e le emozioni dei cavatori in presidio

In Primo Piano da Yari Riccardi Commenti

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“Non ci serve nulla di materiale. Ci serve solidarietà, ci serve sapere che non siamo soli”. Sono un blocco unico, come quel travertino che tanto amano, che sanno estrarre da quella terra che è loro come nostra per renderlo poi quel prodotto di pregio conosciuto in tutto il mondo.

Intorno un turbinio di striscioni e magliette bianche, quel SiamoTuttiCavatori che è ormai diventato slogan e rivendicazione. Per loro molto di più: è un mestiere che rischiano di non poter più svolgere.

E’ una testimonianza piena di dignità quella degli operai del settore estrattivo, da giorni in presidio sotto il palazzo comunale. “La gente ha iniziato ad essere solidale, capisce il disagio – raccontano – che c’è ed è inevitabile”.

Uomini, donne. Qualche figlio, pure lui con la maglia che è orgoglio e simbolo. “Siamo qui e ci restiamo, per far capire che non molliamo: vogliamo risposte, da chi è più in grado di darle dell’amministrazione comunale, che ogni giorno si comporta come un muro di gomma nei nostri confronti”.

Il futuro è oscuro, inevitabilmente. E non può non fare paura. Qualcuno ha ricevuto la lettera di licenziamento. Qualcuno sa che se le cose andranno male la riceverà, presto o tardi. “I pensieri sono tanti, e non sappiamo davvero quello che aspettarci. Sappiamo che abbiamo famiglie, mutui, figli, sogni. Se andiamo in mezzo a una strada, che cosa faremo? Dove andremo? Qui lavoro non c’è”.

Sull’eventuale chiusura del comparto estrattivo hanno le idee ben chiare. C’è chi lavora nelle cave da più di 20 anni, chi grazie a quel lavoro ha costruito tutto ciò che ha ora. Famiglie, case, progetti, sogni. Sa cosa potrebbe succedere. “Lo sanno che se ci fanno chiudere l’acqua poi allaga tutto? Che avremo cantine completamente inondate? Che quelle cave potrebbero diventare discariche a cielo aperto?”.

I bambini giocano intorno ai loro papà. Le mogli, le fidanzate, le figlie, guardano i loro uomini come fossero soldati al fronte. Sanno di dover essere forti, forse più forti dei loro compagni.

“E’ impossibile non riuscire a conciliare – racconta una ragazza – ambiente, lavoro e benessere. Al Comune sanno cosa potrebbe succedere? Sanno come pagare le conseguenze del dopo? L’intero territorio andrà a morire. E’ una questione di responsabilità: anche non prendersele è una scelta”.

Il lavoro nelle cave come orgoglio e appartenenza. E’ iniziata la terza settimana di proteste, e di mollare non ne vogliono proprio sapere. Nonostante la freddezza dell’amministrazione comunale, scesa a parlare con loro soltanto dopo le riprese della trasmissione Agorà.

Non mancano le idee, e la consapevolezza della complessità della situazione. “Sappiamo tutti – racconta un cavatore – della situazione economica del Comune. Le casse sono vuote: e allora, invece di chiudere le cave, perché non rendere di nuovo il travertino una fonte di ricchezza per tutti?”.

Il senso della protesta lo racconta una donna. Gli occhi lucidi e orgogliosi, guardano l’uomo che le sta a fianco, che lotta per quella che da anni è la sua vita. “I cavatori non vogliono cambiare lavoro. I cavatori vogliono fare quello che hanno sempre fatto. Vogliono tornare a casa con le mani sporche e le gambe stanche, vogliono abbracciare noi, prendere sulle spalle i figli, bere una birra e sapere ogni giorno di portare alla luce qualcosa che per questo territorio, e per loro, è vanto”.

Le lampo delle tende si chiudono, e un’altra notte inizia per i lavoratori del presidio. Non possono dormire in piazza in più di 10, ma sanno di avere dietro di sé la forza delle braccia, i battiti dei cuori, il sudore di 2000 e passa persone che attendono di conoscere il futuro.

 

 

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