Una terra lacerata da sempre. Popoli che soffrono le scelte scellerate dei governi. La comunità internazionale che vede e provvede per una sola parte, quella più potente, come spesso accade. Israele e Palestina. Due Stati, uno riconosciuto, l’altro no. Dal 1947 – 1948, anni in cui veniva istituito lo Stato d’Israele, la parola Pace resta prerogativa di trattati tra statisti che mai hanno dato risultati. Un mese fa l’atto dell’esercito israeliano contro il convoglio pacifista Freedom Flotilla, che andava in Palestina per portare aiuti. Morti, come sempre. Quale sarebbe stata la reazione se i morti fossero stati a parti invertite? Tralasciando la solita scia di dichiarazioni di intenti, abbiamo scelto un'altra linea. Sentire la voce di chi vive lì. E abbiamo ascoltato K., ragazzo di Betlemme. “Lunedi 31 maggio, ho accesso ha televisione, mi appare subito il canale arabo "Al-Jazeera", già qualche giorno fa avevo ricevuto una telefonata da degli amici che si imbarcavano sulle Freedom Flotilla. NOTIZIA IMPORTANTE, diceva la scritta in bianco su rosso: 16 morti e 40 feriti sulle Freedom Flottilas”. Con uno scarno comunicato della più importante tv araba, crollano le speranze di un intero popolo. Un popolo che contava su quel convoglio, che avrebbe fatto sentire il mondo più vicino, quello stesso mondo che spesso definisce l’intero popolo di Palestina terrorista, un varco tra le barriere imposte a Gaza. La delusione cocente, quella di chi aspettava una nave che è arrivata carica di sangue. “Dove vivo io – prosegue K. – il dolore per questa faccenda non c'e. La sofferenza non c’è più, saremmo tutti morti da decenni se provassimo dolore per ogni cosa di questo genere che succede. C’è rabbia, rabbia che si accumula, rabbia e sempre più rabbia, una rabbia non può accumularsi per sempre. Un giorno di questi, forse esploderà e porterà a una ennesima rivoluzione, una nuova intifada, che porterà ancora più rabbia, dolore e delusione”. Rassegnazione nella parole del ragazzo – uccidere la speranza dei giovani è un crimine efferato e odioso – e nella gente, quella gente che lui racconta con orgoglio e ironia, quando afferma che “la cosa più deludente è che questi pacifisti sono stati fatti passare per terroristi con "armi" che hanno attaccato l'esercito Israeliano. Ci sono un sacco di prove contro Israele, a partire dall'attacco fatto in acque internazionali, e quei poveri morti, uccisi per la liberta sono stati fatti passare per "violenti e terroristi". Ma che ci si può aspettare dagli amici di un popolo "antisemita" e "terrorista" come tutti ci definiscono? Anche le inchieste delle Nazioni Unite, non cambieranno nulla”. Una terra al tappeto. In Palestina si vive quasi solo di turismo, e in questo periodo per la tensione tanti gruppi turistici rinunciano ad andarvi. L’economia scende, e si alza il tasso dei disoccupati. “Nei campi profughi i disoccupati sul totale degli abitanti maggiorenni sono oltre 50%”. Nel campo profughi "Beit Jibrin" , quello di K., la percentuale di disoccupazione arriva al 65%. “La pace in Palestina secondo me non e prevedibile, c'e troppa tensione. Io vedo una piccola luce nella nuova generazione di ragazzi Israeliani, ora sta crescendo il numero di organizzazioni Israeliane pacifiste Pro-Palestinesi, questo ci offre davvero una nuova speranza”.
Sessantadue anni. Da 62 anni i Palestinesi chiedono di tornare alle loro terre. La vita nei campi profughi, la crescita della popolazione, niente lavoro, la violenza israeliana che aumenta. “L'unico modo di arrivare a qualcosa simile a una "Pace" – chiude K. – è solo restituendo le terre del 1948 e del 1967 e vivere tutti sotto lo stesso stato come fratelli, per uno stato Palestinese. Nel senso che se vogliono vivere qui devono farlo da Palestinesi, non da Israeliani”. Un residuo di sogni nella ultime parole di K. Quei sogni che – qualche volta – nemmeno le bombe riescono a sradicare del tutto.
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