“Questa storia è una bestia disossata e poi rimontata e raccontata recitata cantata”. Ed è una di quelle storie che va fatta circolare, e che poteva essere raccontata solo così. È la storia di un figlio che porta sul palco il padre, un padre macellaio che in realtà avrebbe voluto fare il cowboy. È la storia di Massimo Saccucci – con il fratello Enzo per anni nella loro Macelleria su via Roma – che viene raccontata dal figlio Simone con una forza dirompente e con una malinconia inevitabile e delicata, con il dolore dietro le quinte e con la vita. Dentro, fuori, di lato. Ovunque. È la storia di una famiglia e di un uomo, è il racconto incantato di un posto che di Guidonia è stato centro, cuore e sangue. Un semplice negozio all’interno del quale tutti più o meno – tutti quelli di una certa età – siamo capitati, con genitori e nonni, mariti e mogli. Era una meta per molti la Macelleria dei fratelli Saccucci: ci passava Enrico, che assomigliava a Sandokan e che a Massimo chiedeva sempre mille lire, per comprare un mazzo di fiori da regalare alla mamma che dorme al cimitero, ci capitava Angelo con la sua pistola d’oro, era cliente il il maresciallo dei carabinieri che la carne non la voleva mai pagare. È una storia d’amore, quella di Rizziero e Marta che decidono di aprire una macelleria una volta arrivati da Vallinfreda a Guidonia, prima solo il sabato, poi tutta la settimana. È Trinità e il suo motivetto. È la ricetta per non far morire il fiore pure se intorno tutto si secca, è non far restare la passione solamente una parola, perché la passione non è mai una sola parola. È la domenica con la partita della Juventus, che ti fa sentire signore anche solo per un giorno a settimana. E’ la poesia di certe canzoni, la delicatezza di un amore vero che passa attraverso i momenti della Storia, quella di Massimo e Luisa e dei figli Simone e Chiara. È una scatola di polpette al sugo, è una cassetta dove è incisa sempre la stessa canzone. È una stanza bianca che si affaccia su Villa Torlonia, una stanza dove tutti entrano con la mascherina. È carne ed è sangue, avvelenato da uno straniero. È la paura di Massimo, che tenta di correr via, ma sa di non poter scappare. E allora se ne va, sì, ma resta. Resta vivo nelle storie di Simone e nelle passioni, quelle che ci fanno amare un lavoro anche se non fa per noi, un lavoro che ti fai piacere se ci metti dentro “tutte le idee, le passioni. Pure voi. Per esempio, guarda qua: Topolino, Paperino, Pippo…li hai fatti tu. È bravo a disegnare Simone. E io li ho attaccati tutti, così quando entro qua li guardo subito. E Chiara, la ciambelletta nostra, sta sempre al registratore cassa e fa gli scontrini a tutti: non se ne fa scappare uno. E poi tra un cliente e l’altro mi scrive tutti foglietti con i cuoricini e ti voglio bene papà. E allora io li ho messi tutti sul banco con una bella lastra di vetro sopra. E chi ce l’ha il banco così: solo noi. Ecco. Così me lo sono fatto piacere questo lavoro”. Una storia serve a far restare qualcuno anche quando è costretto ad andare via. E sono queste le storie che non finiscono mai. Perché non è importante quello che succede alla fine. Quello che davvero importa veramente è che il cowboy va verso il Sole. E che Massimo non smette di cantare. Come Simone. Come la Macelleria dei fratelli Saccucci. Una storia di carne e di sangue. Che circola, oggi senza veleno. Come questa storia. Che circola. Il verbo è lo stesso. E non crediamo sia un caso. Simone Saccucci con Maurizio Cirulli racconterà la storia della Macelleria – lo scorso anno vincitore del premio Corvo d’Oro 2016 al TeatroFestivalCittà – domenica 26 marzo al Teatro Imperiale, alle 17 e 30 e alle 21.
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