C’era il freddo. E c’era la speranza. Era la speranza che scaldava, per quanto ne possiamo capire noi, dalla disperazione, che ti faceva ricordare quando hai messo tre cose dentro una bisaccia e hai salutato tutti, promettendo di tornare con un sorriso e un po’ di fortuna in più. C’erano uomini e donne, c’erano bambini. C’era il mare, e il suo ventre. Ora non c’è niente. Se non acqua, e soccorsi, e corpi da recuperare.
Il mare non ha colpe, questo deve essere chiaro. La colpa nell’acqua sporca di rosso sangue davanti a Lampedusa è difficile trovarla. Che colpa ha chi abbandona tutta la sua vita per cercarne una migliore, rischiando consapevolmente il non ritorno? C’erano bambini, lo abbiamo detto. E c’erano mamme che li tenevano al di fuori dell’acqua, dopo che su quel barcone zeppo di vita e di paura e a un certo punto pieno di fuoco – perché non sei lucido, quando vedi la terra e ti dicono che il motore dove viaggi si è rotto. Non si può essere lucidi quando hai la vita davanti e credi che il peggio sia passato, che hai lasciato alle spalle il buio di un viaggio terribile che dura da mesi. E quindi fai di tutto: dai fuoco a una coperta, sperando che qualcuno ti veda. Ma chi agita le braccia per attirare l’attenzione non sa che in Italia se aiuti un profugo rischi una condanna per favoreggiamento – è scoppiato l’inferno. Acqua e fuoco, acqua sotto e fuoco sopra. E sale, e fame e sete. E nafta. Non resta che gettarsi nel mare. Che aveva fame. Ma forse non così tanta. Non è crudele il mare. Certo lo è di più chi mette su una barca uomini e donne, a un prezzo salatissimo, in condizioni disumane. Non è lontano il ricordo dei treni che correvano verso i campi di morte del regime nazista. Non è così lontano per poter fare consapevolmente dei paragoni.
“…La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero: sto per morire, non morirò. Sto per morire non morirò sto per morire non morirò sto – l’acqua arriva alle ginocchia, la zattera scivola sotto la superficie del mare, schiacciata dal peso di troppi uomini – per morire non morirò sto per morire non morirò – l’odore, odore di paura, di maree di corpi, il legno che scricchiola sotto i piedi, le voci, le corde per aggrapparsi, i miei vestiti, le mie armi, la faccia dell’uomo che – sto per morire non morirò sto per morire non morirò sto per morire – le onde tutt’intorno, non bisogna pensare, dov’è la terra? chi ci porta, chi comanda? il vento, la corrente, le preghiere come lamenti, le preghiere di rabbia, il mare che grida…”
Chi ci porta? Chi ci comanda? Chi ci salverà? Ecco l’istinto di sopravvivenza, ecco la voglia di vivere, che esplode attraverso braccia che si agitano cercando di resistere, attraverso occhi che implorano un aiuto che forse troveranno troppo tardi, attraverso vestiti inzuppati tolti in fretta e furia prima che diventino di cemento. Quegli stessi vestiti che hanno colorato le acque di Lampedusa. Gli stessi ritrovati sugli avanzi della barca, pezzi di tante vite che sono state tranciate via. Dal mare, si dirà. No, il mare non uccide. Non è una sfida tra l’uomo e il mare. Non è un romanzo di Melville e il Leviatano non esiste, non nel Mediterraneo almeno. Esiste la crudeltà dell’uomo, è quella che uccide. E quella ha ucciso centinaia di vite umane. Non criminali, colpevoli del reato di immigrazione clandestina. Persone che intendevano solamente vivere. E che hanno rischiato tutto per provarci.
“…Alzai lo sguardo. E su decine di teste che ondeggiavano, e decine di mani che tagliavano l’aria, vidi il mare, e le lance lontane, e il nulla fra noi e loro. Guardavo incredulo. Sapevo che non sarebbero tornati. Eravamo nelle mani del caso. Solo la fortuna ci avrebbe potuto salvare. Ma i vinti, mai hanno fortuna…”
I vinti non ce l’hanno la fortuna. Per loro non esiste, ce lo insegnano i libri, quelli brutti però. E ce lo racconta la cronaca, ogni giorno. Esiste però anche un’isola dove uomini e donne piangono la scomparsa di quelli che in un mondo ideale dovrebbero essere nostri fratelli – brothers, così si chiamavano tra loro i migranti. Quante volte noi chiamiamo un’altra persona col nome di fratello? – e accolgono i pochi superstiti e onorano quelli che ora sono nel ventre del mare. Esiste un’isola che da anni è il primo scalo di questi viaggi, e da anni con dignità convive con la morte e con la vita. Già, perché non c’è sempre la morte in questi viaggi. Ogni tanto, non sempre, trova spazio anche un po’ di luce. La luce sta in quelle storie di persone che si sono lanciate per salvare i migranti, che hanno pianto con loro, in un infermiera che dà un abito a una ragazza in prognosi riservata. In chi non si è lasciato piegare dall’orrore. Nonostante il mare non smettesse di rendere i corpi, loro c’erano. Luce. In una fredda mattina di inizio ottobre.
“…— Io una volta ho visto gli angeli. Stavano sulla riva del mare.
Con tutto che lui non ci credeva, in Dio, era uno scienziato, e per le cose di chiesa non aveva una gran predisposizione, se capite cosa voglio dire. Ma aveva visto gli angeli. E te lo diceva. Ti prendeva sottobraccio, un giorno qualsiasi, per strada e con la meraviglia negli occhi, te lo diceva.
— Io una volta ho visto gli angeli…”
Quell’isola fa parte anche di quel Paese dove i social network danno ampio spazio a sfoghi, riflessioni, pensieri. Il contenuto oggi è Lampedusa, e domani già saranno di meno, perché la piazza telematica impone il nostro status oggi. Che poi ci sia un vero interesse o no, questa è tutta un’altra storia: magari è solo per dire la nostra, come spesso accade. E non per un effettivo dolore, ma perchè oggi “va così”. E come altrettanto spesso accade non guardiamo, per non sapere: ci limitiamo a chiederci i motivi del lutto nazionale “per loro sì e per gli italiani no”, o a stancarci del clamore mediatico di quasi 200 morti. Lo insegnano i manuali di giornalismo: 200 morti fanno notizia, due vittime ne fanno meno. Ma a noi non è mai piaciuto fare distinzioni sulla morte: non le abbiamo mai fatte su questo giornale. I morti sono uguali. E a noi interessa raccontare un pezzo delle loro storie per fare in modo che non vengano dimenticati. Domani gli stati su Facebook, e i Tweet, già saranno di meno, sostituiti dai pezzi della nostra vita, che è quella che più ci interessa. Così come diminuirà lo spazio sui giornali. Fino a un’altra tragedia, un nuovo bagno di sangue, una ulteriore strumentalizzazione. E’ il feroce ciclo dell’informazione, che procede di pari passo con quello della politica. Italia, Europa. Troppo facile ricordarsi del fenomeno dell’immigrazione solo quando si sporca di sangue. O quando non parla di crimini efferati. Troppo facile dire “ora cambiamo la Bossi Fini”. Troppo facile indignarsi ora. Gli sbarchi continueranno, le persone moriranno, noi faremo paragoni con altre morti delle quali spesso non ci siamo interessati. Così è, e così sarà sempre.
“…— Amore mio, addio.
— Oh no, no, no, no.
— Addio.
— Non morirai, te lo giuro.
— Addio.
— Ti prego, non morirai…
— Lasciami.
— Non morirai.
— Lasciami.
— Ci salveremo, devi credermi.
— Amore mio…
— Non morire…
— Amore mio.
— Non morire. Non morire. Non morire.
Fortissimo, si sentiva il rumore del mare. Forte come non l’avevo mai sentito…”
Saranno stati questi i pensieri di chi guardava per l’ultima volta le persone che amava scomparire negli abissi. Prima di scomparire lui stesso, o di essere salvato. Questi o altri, non è questo il punto. Il punto è che quasi 200 persone hanno perso la vita per inseguire una speranza. Arrivati dal mare, accolti da un’isola che sa cosa vuol dire accoglienza, in un Paese che ha poca coscienza di sé e che spesso dimentica da dove e come è nato. Un Paese circondato dal Mare per tre quarti. Quel Mare cantato dai poeti, il Mare che spesso è cimitero, fine e inizio di storie che restano dentro proprio perché intrise di salsedine. Ma non è nel Mare che dobbiamo ricercare colpevoli.
“…l’immenso mare ha una scossa, tutto il mare, fino all’ultimo orizzonte, trema, si scuote, si scioglie, scivola nelle sue vene il miele di una benedizione che incanta ogni onda, e tutte le navi del mondo, le burrasche, gli abissi più profondi, le acque più scure, gli uomini e gli animali, quelli che ci stanno morendo, quelli che hanno paura, quelli che lo stanno guardando, stregati, terrorizzati, commossi, felici, segnati, quando d’improvviso, per un istante, china il capo, l’immenso mare, e non è più enigma, non è più nemico, non è più silenzio ma fratello, e grembo mansueto, e spettacolo per uomini salvi. La mano di un vecchio. Un segno, nell’acqua. Guardi il mare, e non fa più paura. Fine…”
Ci sono corpi nel ventre del mare. E domani saranno dimenticati. Sta a noi, oggi, raccontare queste e altre storie, senza giudizi di parte. Non dettati dalla politica, non scritti sotto effetti di ideologie più o meno valide. Perché sono morti uomini donne e bambini. Ci sono ancora le foto che galleggiano nell’acqua trasparente di Lampedusa, benedetta Locanda Almayer che resiste al fuoco incrociato, di sbarchi e di promesse di aiuto e sostegno. Non crolla, continua a raccontare storie. Di vita, anche e soprattutto. Qualcuno le ascolterà, le parole e le storie, di chi viaggia su un barcone e di chi accoglie e soccorre. Non svaniscono, né le parole né le storie, con una zattera che affonda. Restano, e da qualche parte qualcuno, prima o poi, le troverà. Le preghiere, i canti, i pensieri, i gesti, le lacrime e i sorrisi di speranza. Non è solo orrore, non solo gasolio, non è solo acqua di mare che brucia dentro e fuori. Sono parole. Ma non le nostre, quelle di chi c’è ancora, per raccontare la paura e i soccorsi, la rabbia e lo sdegno. Queste sono le parole che restano. Queste le storie per cui intendiamo fare da megafono. Altrimenti il nostro lavoro, per come lo intendiamo noi, ha veramente poco senso. E quel poco di senso che riusciamo a mantenere, intendiamo stringerlo forte tra le mani, e non lasciarlo andare via così facilmente. Un po’ come le foto con gli auguri di buon viaggio, che stanno ancora lì in mezzo al Blu, da qualche parte. E’ un dovere, nei confronti di chi ha creduto di poter dare un senso più giusto alla sua vita. Ed ha pagato un conto salatissimo.
(Abbiamo usato alcuni brani tratti da Oceano Mare, di Alessandro Baricco. Libro bellissimo, immaginifico, poetico. Forte e crudele. Decisamente, un libro che è molto vicino al concetto di Mare che più ci piace. Il Mare è senza spiegazioni. Ma rispetta l’uomo, molto di più degli abitanti delle Terre Emerse).
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